L’attacco di panico: qual è la sua funzione? (2019)

L’ATTACCO DI PANICO: QUAL È LA SUA FUNZIONE?                                    

Come riconoscere l’attacco di panico? Qual è la sua funzione? Perché improvvisamente si può sentire di non avere il controllo su un meccanismo tanto “limitante”?

Chiunque si fosse mai ritrovato in una situazione improvvisamente paralizzante, una sensazione di perdita di respiro, il fiato affannato e il cuore che palpita talmente veloce e forte da sentirne fastidiosamente la presenza; chiunque avesse avuto anche solo una volta nella vita, la sensazione di fine, di morte sopraggiunta, di non risoluzione per poi rivedere nella salvezza successiva un qualcosa di accostabile al divino, forse una grazia, un miracolo o semplicemente un caso; chiunque oggi si rivedesse dietro la totale vulnerabilità che in alcune persone giunge improvvisamente e senza un’apparente spiegazione, sa che c’è bisogno di sapere. Ma sapere cosa? È dietro l’ignoto che si nascondono le paure più paralizzanti[1]

Chi ha provato episodi di panico li descrive come un’esperienza terribile, spesso improvvisa e inaspettata (almeno la prima volta), di “distacco della mente dal corpo”. Quello che le testimonianze riferiscono ripetutamente è la paura che quella stessa esperienza “così limitante” possa ripresentarsi, che nella stessa situazione non si abbiano i mezzi per affrontarla. Diventa impossibile, in alcune circostanze, uscire di casa da soli, viaggiare in treno, autobus o guidare l’auto, stare in mezzo alla folla o in coda, “per paura che ri-accada”. E allora, la modalità comportamentale conseguente sarà prevalentemente l’evitamento, la tendenza ad evitare tutte quelle situazioni potenzialmente “pericolose”.

Il timore che si ripresenti la paura diventa un “pensiero assillante”, da cui nasce la paura di avere paura. Sempre più insicuri, si può dare inizio a strategie difensive di riduzione degli spazi di movimento; si può cercare di evitare quelle situazioni in cui gli attacchi di panico sono avvenuti, si eviterà di andare da soli in luoghi sconosciuti, si sentirà il bisogno di essere accompagnati da una persona fidata. L’esperienza di perdita di controllo può condizionare tali limitazioni. L’attacco di panico, come dice appunto la parola, si associa al panico, al pericolo, ad una paura totale e,  talvolta, incomprensibile.

Riporterò estratti di alcune testimonianze di pazienti che hanno voluto dare il loro contributo, pazienti che, grazie al lavoro psicoterapico, ma soprattutto grazie alla loro motivazione e intenzione a scoprirsi, rischiare, mettere in gioco le loro emozioni e paure, sono ritornati a sentirsi liberi dalla prigionia del panico

RICKY ( 39 anni), tecnico di laboratorio.

Questo è quello che mi ricordo del mio primo attacco di panico. Sono sul raccordo anulare, a Roma, è una mattina come tante altre, il sole della capitale splende come sempre, sono fermo in coda…la coda di un infinito serpente di macchine fumanti. Dentro ognuna mi sembra di vedere le stesse facce ogni giorno, tutte uguali, tutte assenti e assorte nei loro pensieri………Un tremore accarezza le mie tempie, non ci faccio caso, poi una vampata di calore nel petto, sembra nulla, ma di colpo mi sento in trappola! Le gambe iniziano a formicolare, mi cedono..la testa inizia a girarmi, oddio mi rendo conto che non posso spostarmi, non posso uscire, non posso chiamare aiuto, mi sta venendo un infarto penso e non so che fare, guardo fuori attraverso gli altri finestrini, qualcuno noterà il mio malore e mi soccorrerà, ma nulla, nessuno volge lo sguardo verso di me, eppure sto male, ho la nausea, mi sembra uno di quei sogni dove mi sento impotente… Mi fermo, il cuore va a mille, sudo tanto, il respiro è corto, le mie dita tremanti compongono il numero della mia collega che fa la stessa strada: “Lucia, sono Ricky sto malissimo, ti prego aiutami sono  sulla corsia di emergenza, ti prego chiama un’ambulanza, vieni subito…” Il medico del pronto soccorso mi congeda con un sorriso e una pacca sulla spalla: “Stia sereno, è stato solo un attacco d’ansia, le passerà, segua la cura e prenda i farmaci che le ho prescritto”: Io lo guardo incredulo, si fa presto a dare pacche sulle spalle e pillole magiche.

Quante volte vi siete ritrovati nel traffico? Immaginate che Ricky incontrava lo sguardo dell’altro e non aveva risposta…dal dottore una “pacca sulla spalla”. Cosa immaginate abbia provato Ricky in quei momenti?

Emozioni, sensazioni, pensieri comuni riportano i pazienti quando descrivono gli attacchi di panico:

IL DISORIENTAMENTO: le crisi appaiono inspiegabili, soprattutto dopo le innumerevoli visite specialistiche cui ci si sottopone dopo il primo attacco di panico;

LA VERGOGNA: questa condizione inspiegabile e incontrollabile può portare il paziente a sentirsi inadeguato, “sbagliato”;

LA RABBIA: un forte vissuto di rabbia, associato all’inspiegabilità della crisi, può alternarsi a momenti di rassegnazione;

LA TRISTEZZA per la solitudine dell’incomprensione e/o svalutazione del disagio.

Il panico viene definito come “ictus emotivo”, per evidenziare il terremoto emotivo e somatico che investe la persona che, in modo inaspettato, lo sperimenta nella sua apparente imprevedibilità. Tale ictus emotivo si caratterizza per la difficoltà, per il soggetto che lo sperimenta, di rintracciare nell’immediato (e spesso anche successivamente) cause che giustifichino una simile tempesta.

E’ comune tra gli approcci psicoterapici l’idea che, alla base dell’attacco di panico, ci sia un disturbo della competenza relazionale che risale ai primi anni di vita dell’individuo.

Si ipotizza che chi soffre di attacco di panico non abbia ricevuto quel contenimento genitoriale sufficientemente buono, necessario per reggere la successiva esperienza  di apertura del sé. Alla base di questo disturbo sono state individuate due angosce: l’ansia da separazione, tipica di una soggettività non compiutamente integrata, che fatica ad esprimersi spontaneamente, autonomamente; l’ansia di consegnarsi, l’ingresso in una nuova appartenenza, l’idea o il tentativo di far parte di un nuovo sistema col timore di venirne risucchiati. La teoria e la pratica psicoterapica è d’accordo sull’osservazione che nell’attacco di panico il paziente sperimenti l’essere gettato nel mondo senza protezione (vissuto legato alla prima infanzia). Si ipotizza che coloro che soffrono di attacchi di panico non abbiano ricevuto quel contenimento genitoriale necessario per reggere l’esperienza di apertura totale del sé. Durante l’infanzia, il bambino impara dentro le relazioni con le figure genitoriali come percepire le paure, come affrontare il pericolo. Nella paura, l’anticipazione è rivolta al se e a quando il presunto pericolo determinerà delle conseguenze, mentre nel caso dell’ansia da panico l’angoscia anticipatoria è legata all’incertezza sulle conseguenze di una minaccia che, essendo non attuale, potrebbe anche non esserci. L’inadeguato contenimento genitoriale può farci sentire, a un certo punto della vita, sprovvisti dei mezzi per affrontare quello che non è familiare: da qui l’ansia per l’imprevedibile, per la gestione di quello che non si conosce e che non appartiene al conosciuto sistema di riferimento. L’attacco di panico è, dunque, legato alla fobia del legame e dell’attaccamento, alla paura di consegnarsi in un sistema diverso da quello originario di appartenenza. Il panico, senza la percezione di possibilità di controllo, può essere visto come assenza nell’organismo di auto-sostegno, che non si è costruito per la mancanza dello specifico[2] sostegno ambientale. La paura resta tale quando un adeguato sostegno genitoriale è stato interiorizzato; il coraggio “sostenuto”, sostenuto da un adeguato contenimento genitoriale, può vincere la paura.

Secondo studi recenti, l’esperienza degli attacchi di panico esprime le difficoltà del nostro tempo, quelle contrassegnate da un’autonomia che non poggia su solidi sistemi di riferimento, ma nasce dalla negazione delle proprie debolezze e del bisogno dell’altro. Al bisogno di autonomia si affianca il bisogno di relazione. Alla paura, alla vergogna di separarsi dal sistema di appartenenza, legata alla difficoltà dell’individuo di venire fuori con la sua soggettività, si affianca il desiderio d’incontrare l’altro  in maniera piena e nutriente, di STARE con l’altro. Il disagio psichico, disturbo della competenza relazionale per l’approccio psicoterapico gestaltico, insorge, come accennato, dentro una relazione, quella instaurata nei primi anni di vita e si riattiva nell’incapacità di stare con l’altro, a fronte di un desiderio negato di relazione, negato per la paura di non avere i mezzi per affrontarla in maniera autonoma. La paura dell’autonomia è quello che ha determinato l’esordio degli attacchi di panico in ANDREA, 45 anni, impiegato.

Fino a 35 anni, non sapevo cosa fosse il panico. Si, vivevo momenti d’ansia nei gruppi di coetanei, avevo nei rapporti con le donne una sorta di disagio, ero sempre dedito a piacere e a compiacere, ma quando è arrivato il panico ha bloccato letteralmente la mia vita. Adesso ho 45 anni e sono figlio unico. Mio padre è cieco, anche se è una persona coraggiosa e, nonostante il suo problema, molto autonomo. La sensazione che registravo nella mia infanzia era che il mondo girasse intorno a me….Dalla fine delle superiori fino al 1997 ho avuto un’importante relazione e poi convivenza con una dolcissima ragazza. Finita perché, aldilà della convivenza e delle mille piccole attenzioni, avevo serie difficoltà a pensare alla nostra storia proiettandola nel futuro. Anche economicamente erano i miei a sostenermi. Finita questa relazione, sono tornato a casa da loro e si sono succedute altre storie e convivenze non andate a buon fine. Ma la paura dell’autonomia si è mostrata un giorno cominciando ad avere delle crisi da panico.

Comune nel nostro tempo è la situazione in cui l’uomo, separato dalle sue radici, dalle sue principali figure di riferimento, “non è attrezzato” per entrare in una nuova appartenenza. Come per ogni sintomo nevrotico, ci troviamo di fronte ad un conflitto intrapsichico, conflitto tra il desiderio di stare con l’altro e la paura di non saperci stare. Secondo un approccio di matrice relazionale, la prima comparsa dei sintomi fobici, legati all’attacco di panico, può avvenire in un clima conflittuale in cui si sente, da una parte, la spinta verso l’autonomia e l’indipendenza, dall’altra la percezione che non si hanno le capacità per vivere “da soli”. Come nel caso di Andrea, la paura dell’autonomia, già presente da prima e mai espressa o riconosciuta in quanto tale a discapito del sistema esplorativo, si è mostrata un giorno cominciando ad avere delle crisi di panico. A questo proposito, è necessario cercare di contestualizzare gli episodi di attacco di panico, relativamente alle situazioni in cui si verificano. Si ipotizza che queste siano la goccia che fa traboccare un vaso pieno di episodi affini. Lo studio di Schimmenti e Bifulco (2015) sottolinea come un accudimento freddo e critico sia precursore dei disturbi d’ansia, in associazione con uno stile di attaccamento ansioso-ambivalente[3], che si poggia su un modello operativo interno organizzato intorno alla paura del rifiuto e della separazione, motivo per cui, nel momento in cui ci si sperimenta ad esplorare il mondo, lo si fa secondo la propria organizzazione di significato fobica delle circostanze nuove, per cui queste sono percepite come minacciose e impossibili da affrontare autonomamente. Di fronte ad eventi quali la prima gita o vacanza, il matrimonio o la convivenza con il partner, la separazione o la morte dei genitori, la nascita e l’accudimento di un figlio, la malattia di un genitore o la vedovanza di quello superstite, la malattia del coniuge, ci si può percepire particolarmente vulnerabili. Le sensazioni di debolezza e soffocamento, provocate dal restringimento dei bronchi e della riduzione del volume polmonare, a causa dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (la cui attività è incrementata nei casi di inadeguato sostegno genitoriale), causeranno uno stato d’allarme per il timore di soffocare. Questo può determinare i sintomi dell’attacco di panico con le conseguenti sensazioni di perdere il controllo, d’impazzire, di svenire[4]. È evidente come gli eventi ad esempio elencati come possibili cause scatenanti degli attacchi di panico riguardino spesso situazioni in cui aumentano le richieste di accudimento da parte dei familiari/genitori/partner/figli. Stimoli apparentemente neutri possono predisporre la persona alla paura; l’ansia anticipatoria con l’evitamento di tutte quelle situazioni in cui si è verificato il primo attacco di panico caratterizza questo disagio.

Secondo Di Ceglie (2003), l’alessitimia, intesa come “condizione di sentimento muto”, è centrale nei vissuti psicopatologici come il panico, nei quali è possibile identificare meccanismi di dis-regolazione degli affetti. Si può non aver imparato a regolare le emozioni, in quanto non c’è stata una loro regolazione adeguata nei primi anni di vita; Il mondo diventa pericoloso, imprevedibile, incerto, così come sono state vissute le  figure di riferimento nei primi anni di vita.

Solo il sostegno genitoriale permette il formarsi di quello sfondo di sicurezze esistenziali (sana fiducia in se stessi e nella vita) (Perls et al. 1971, 464), necessario per far fronte alle difficoltà dell’esistenza (Solonia, 2005)

Contessa, 35 anni, impiegata.

Durante la mia infanzia non ho avuto una crescita serena e continua. Le liti, le grida e le aggressioni cui assistevo in casa da bambina mi hanno segnato profondamente senza che me ne accorgessi. Anzi, visto che avevo affrontato di tutto, proteggendo spesso mia madre dalle aggressioni di mio fratello, mi ero fatta un’idea di me forte e autonoma…Ma non era forza, bensì paura di perdere la mia mamma, il mio punto di riferimento, la mia protezione…Altro che forte, ero una bambina terrorizzata, che ha sempre teso a proteggersi per cercare di rimanere tranquilla….Vivendo nel continuo allarme era ovvio che io facessi fronte alla situazione di pericolo anche con rabbia e aggressività, ma tutto ciò mi ha fatto rimanere bloccata nel proteggermi, invece che nel crescere in autonomia.

Contessa evidenzia come la forza che intendeva mostrare agli altri e a sé fosse in effetti non forza, ma paura di perdere sua mamma, il suo punto di riferimento, la sua protezione. Contessa sottolinea come l’imprevedibilità delle figure di riferimento e di tutti i membri della sua famiglia abbiano pregiudicato la sua crescita autonoma facendola stare, d’altro canto, in continuo allarme.

Mi chiamo Cory, ho 32 anni e sono una giornalista. Questa è la mia esperienza di panico. Posso dire che il panico rappresenta un’esperienza assolutamente traumatica nella mia vita e, in qualche modo, un handicap che pregiudica uno svolgimento sereno e concreto del mio quotidiano. Ma già prima che comparisse, ho scoperto che la vita non era libera, era comunque gestita dalla mia paura e dal mio bisogno di compiacere. Da quando ho imparato a capire cosa fosse, ho riscontrato che il panico ha caratterizzato ogni momento significativo della mia esistenza, ogni prova, ogni singolo attimo in cui ho dovuto confrontarmi con me stesso e le mie capacità. Se da un lato ha costruito un enorme ostacolo nel raggiungimento di molti obiettivi di vita e in ogni caso una minaccia alla mia serenità, dall’altro ha rappresentato un importante segnale di allarme che mi ha spinto ad affrontare l’ansia di me stesso, del mio vissuto, delle esperienze che hanno causato traumi alla mia psiche.

Nel caso di Cory, l’attacco di panico ha rappresentato la possibilità di scoprirsi, di riconoscere le esperienze causa di un modo di stare nel mondo con preoccupazione, con ansia, con la paura di avere paura: il sintomo può essere riparativo nella misura in cui lo si accoglie e gli si da un significato. Dietro l’ansia c’è sempre una paura, un’ emozione, riconoscerle può renderla meno minacciosa, riconoscere le emozioni e le situazioni a questa legate può essere fondamentale per la cura del trauma. All’incertezza/imprevedibilità di quello che può accadere può sostituirsi la consapevolezza di un pericolo oggettivo che, pertanto, può essere controllato. Il terapeuta può, a questo proposito, oltre a lavorare col paziente sulle eventuali esperienze che hanno determinato tale stabilità precaria, far sì che queste diventino dicibili, esprimibili, può aiutare il paziente ad essere consapevole di cos’è l’esperienza di panico, con i suoi vissuti soggettivi, i suoi pensieri e le emozioni. La relazione co-costruita dal paziente e dal terapeuta insieme, oltre a dare questa possibilità, può anche essere riparativa, offrendo degli strumenti di autoregolazione di quelli che possono essere campanellini di allarme. Come nel caso di Cory che, attraverso l’episodio del panico, ha preso consapevolezza di quanto la paura e l’ansia abbiano caratterizzato ogni momento significativo della sua esistenza, ogni prova, ogni momento in cui si è dovuta confrontare con se stessa e le sue capacità, attraverso un percorso psicoterapico può essere possibile acquisire una capacità maggiore di regolare le strategie di risposta, comprendendo quali sono gli attivatori delle risposte di paura e quali i segnali che precedono la dis-regolazione emotiva; il paziente può riconoscere le esperienze che hanno determinato tale incapacità di regolazione degli stati emotivi e sviluppare/interiorizzare strategie che lo facciano sentire più calmo, sicuro, regolato.

Affinché si diventi consapevole del proprio bisogno di relazione e della propria motivazione al contatto, la psicoterapia può essere il mezzo attraverso cui quello che è indicibile e che può essere legato all’inafferrabilità, inspiegabilità dell’attacco di panico diventi dicibile. La consapevolezza delle esperienze che hanno determinato l’incapacità di affrontare le paure  e la co-creazione con il terapeuta di una relazione nutriente e responsiva può essere funzionale alla conoscenza di un nuovo modo di stare nel mondo, un modo coraggioso di entrare in relazione con l’altro, di farlo con o senza la paura. Diventare consapevoli di quelle esperienze relazionali, delle prime relazioni legate alla famiglia e al contesto socio-ambientale, causa dei cosiddetti “vuoti affettivi sottaciuti”, avere la possibilità di rivivere quelle stesse esperienze, può essere determinante per nuove e successive occasioni di crescita, per un modo di stare nel mondo consapevoli del bisogno di relazione e di contatto con l’altro. La paura può restare, ma con questa si può decidere di VIVERE.

Lo stesso esperire un nuovo modo di stare in relazione con il terapeuta può essere funzionale, sottolineo, alla scoperta di un nuovo modo di viversi  la propria soggettività, le proprie debolezze, le relazioni. Un contenimento “sufficientemente buono” può essere determinante nell’apertura totale di Sè, nell’espressione delle emozioni  e delle paure; lo stesso contenimento può essere interiorizzato e diventare una risorsa per affrontare la paura senza soluzione vissuta nell’attacco di panico. Come scrive Solonia “Il percorso terapeutico avrà come primo obiettivo quello di dare un senso (l’appello relazionale) ad un sintomo (l’attacco di panico), percepito senza senso. Il paziente apprenderà progressivamente a fidarsi delle sue parti fragili e sperimenterà la possibilità di fidarsi ed affidarsi al terapeuta (al mondo esterno) e, in modo nuovo, anche a se stesso” (2005, pag. 47).

 

 

Bibliografia

Fonagy P., Target M. (2001). Attaccamento e funzione riflessiva, Raffaello Cortina, Milano

Parker, J. D., Taylor, G. J. Bagby, R.M. (1998). Alexithimia: relationship with ego defense and copyng styles, Comprehnsive psychiatry, 39 (2), pp. 91-98.

Perls F., Hefferline R., Goodman P. (1997). Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma

Perls F. (1995). L’Io, la fame, l’aggressività, Franco Angeli, Milano

Solonia G. (2005). Cambiamenti sociali e disagi psichici. Gli attacchi di panico nella post-modernità, in Francesetti G. (ed.), Attacchi di panico e post-modernità, Franco Angeli, Milano, 37-50.

Solonia G. (2010). L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, in Regazzo L.D. (ed.) Ansia che fare? CLEUP, Padova, 233-254

Vinciguerra P. , Fernandez I. (2019). Il panico, ospite imprevisto. Diagnosi del disturbo e terapia EMDR, Mimesis/Frontiere della psiche, Milano

Winnicott D.W. (1970). Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Armando, Roma

Winnicott D.W. (2001). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Patologia e normalità. Un approccio innovatore, Psyco, Firenze

[1] P. Vinciguerra, I. Fernandez , Il panico ospite imprevisto, pag. 17

[2] “Specifico” per sottolineare che il sostegno dell’ambiente deve essere adeguato sia per l’età del bambino, sia per il momento preciso in cui avviene.

[3] I genitori dei bambini con attaccamento ansioso-ambivalente sono di supporto soltanto nel fornire protezione, in maniera però non sempre prevedibile, non sempre efficace e spesso eccessiva e non necessaria, poiché agiscono a volte in funzione dei propri bisogni e non in funzione di quelli del bambino. Nel momento in cui la figura di attaccamento ne sente il bisogno, avvicina il bambino a sé, per poi allontanarlo quando sente soffocante la sua presenza. Questi bambini si sentono ammirati e incoraggiati soltanto nel far ritorno al porto sicuro, ma non dispongono di una vera base sicura da cui ripartire, poiché il disagio non viene mai calmato completamente dalla figura di attaccamento, anzi viene incrementato. Il sistema di attaccamento non si disattiva facilmente, a scapito di quello esplorativo. I bambini che mostrano questa tipologia di attaccamento sviluppano dei Modelli Operativi Interni di se stessi negativi e degli altri come inaffidabili e quindi da coinvolgere nelle proprie vicissitudini emotive per farsi accettare. L’emozione predominante è la rabbia, più volte sperimentata nella loro infanzia, nella sequenza di attivazione del sistema di attaccamento, per il continuo avvicinarsi e allontanarsi del genitore. Una rabbia, successivamente, non esperita, dato il timore di perdere la figura di attaccamento.

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[4]Secondo il DSM V (Manuale diagnostico dei disturbi mentali): A) un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano quattro (o più) dei seguenti sintomi: palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia; sudorazione; tremori; dispnea o sensazioni di soffocamento; sensazione di asfissia; dolore o fastidio al petto; nausea o disturbi addominali; sensazione di vertigine, di instabilità, di “testa leggera” o di svenimento; brividi o vampate di calore; parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio); derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi); paura di perdere il controllo o di impazzire; paura di morire. B) Almeno uno degli attacchi è stato seguito da un mese (o più) di uno o entrambi i seguenti sintomi: preoccupazione persistente per l’insorgere di altri attacchi o per le loro conseguenze (per es., perdere il controllo, avere un attacco cardiaco, impazzire); significativa alterazione disadattiva del comportamento correlata agli attacchi (per es., comportamenti pianificati al fine di evitare attacchi di panico, come l’evitamento dell’esercizio fisico oppure di situazioni non familiari). C) L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza (per es., una droga, un farmaco) o di un’altra condizione medica (per es., ipertiroidismo, disturbi cardiopolmonari). D) Gli attacchi di panico non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale (per es., gli attacchi di panico non si verificano solo in risposta a una situazione sociale temuta, come nell’ansia sociale; in risposta a un oggetto o a una situazione fobica circoscritti, come nella fobia specifica; in risposta a ossessioni; in risposta al ricordo di un evento traumatico, come nel disturbo da stress post-traumatico; oppure in risposta alla separazione dalle figure di attaccamento, come nel disturbo d’ansia da separazione.